La mia bio-Benvenuti!
Una lunghissima carriera quella di Margherita Fumero. Qual è stato il Suo percorso di studi di ieri che l’ha portata ad essere l’attrice di successo di oggi?
«Ho frequentato dall’età di 14 anni, contemporaneamente alle Scuole Magistrali, il Centro Sperimentale di Arte Drammatica di Lorenzo Ferrero di Roccaferrera e Carla Pescarmona dove presi, qualche anno dopo, il diploma».
Alcuni studiosi affermano che la genialità dell’artista sia trasmissibile geneticamente. Lei in famiglia ha o aveva altri artisti ?
«No, nessuno. Sono l’unica ad aver intrapreso questa strada. Tuttavia, nella mia famiglia tutti amavano il mondo dello spettacolo. Il mio papà, per esempio, suonava la chitarra e il suo sogno era quello di diventare un chitarrista; all’epoca, però, se una persona non cresceva in una famiglia di musicisti era impensabile. A mia mamma, invece piaceva molto la recitazione e il canto».
Si potrebbe definire “chiamata” non solo quella percepita da alcuni verso una vita religiosa ma anche quella percepita da un artista verso l’arte. Quando ha sentito Lei questa “chiamata”, ossia quando ha deciso di diventare una donna di spettacolo?
«Avevo sei anni. A Torino c’era un teatro in cui, allora, si proiettavano diversi pellicole. Tra un film e l’altro, facevano una specie di avanspettacolo. Io ero appena arrivata da Racconigi e approdata a Torino, la grande città, e i miei mi ci portarono. Io, pur non avendo mai visto niente nella mia vita, non fui entusiasmata tanto dal film, quanto dal vedere le soubrettes, queste ballerine con il boa (e forse per quello io, ancora adesso a distanza di una vita, amo mettermi il boa sulle spalle!). Guardandole ballare, ho pensato: “questa sarà la mia vita”. Uscita, ho riferito ai miei genitori la mia decisione. I miei si misero a ridere ma io a 6 anni avevo già deciso che questa sarebbe stata la mia strada; o ballerina, o cantante o attrice, insomma qualcosa nel mondo dello spettacolo».
L’ambiente familiare è di solito il primo in cui il bambino riceve determinati stimoli che possono influenzare le scelte professionali. Quali sono secondo Lei quelli che ha l’hanno portata a scegliere la strada dello spettacolo? Come si sono comportati i suoi genitori di fronte alla sua scelta di lavorare in questo mondo?
«Io ero piccolissima e con mia cugina, che è un po’ come la mia gemella perché abbiamo un anno di differenza, abbiamo sempre “giocato a recitare”. Nei nostri giochi, contrariamente agli altri che giocavano con le bambole o altri oggetti ludici, qualsiasi cosa diventava un palcoscenico su cui organizzavamo continuamente delle vere e proprie esibizioni. A 10 anni, infatti, avevo già messo in piedi il primo spettacolino organizzato in un cortile di montagna corredato da un siparietto. Io ho sempre giocato così da sola o con tutti gli altri bambini.
Per quando riguarda come la presero i miei genitori; il mio papà sognava che io diventassi una concertista quindi non si è mai dimostrato contrario all’idea anche perché rispettava visceralmente le scelte altrui. Quindi una mia decisione non l’avrebbe mai contrastata perché era la mia vita. Mia mamma era proprio felice e mi ha aiutata tantissimo. Io dico sempre che forse se non avessi avuto una mamma così non ce l’avrei fatta. Lei, infatti, mi accompagnava ai concorsi e mi veniva a prendere quando avevo le lezioni fino a tardi alla sera. Mi è sempre stata vicino e se ho potuto intraprendere questa strada devo sempre dire “grazie mamma!»
Il debutto, si sa, è un po’ come il primo amore. Ci può raccontare il Suo?
«Dipende di quale debutto parliamo. Quando giocavo coi miei coetanei a recitare per me erano già spettacoli quindi sono stati tutti piccoli debutti.
Come cantante ho debuttato nel momento in cui, partecipando ad un concorso canoro, vinsi il “Microfono d’oro”, una spilla che ho ancora.
Il mio debutto, invece, come professionista è stato col Teatro Stabile di Genova, recitando “Emmetì” con la regia Luigi Squarzina. All’epoca Squarzina era uno dei più grandi registi italiani, lo Stabile di Genova era una dei più grandi teatri e io, veramente, camminavo a tre metri da terra nel pensare di poter lavorare con grossi nomi come Ivo Garrani, Lea Massari e Paolo Ferrari».
Un attore spesso interpreta innumerevoli caratteri e compie interpretazioni di personaggi che possono potenzialmente essere anche molto distati dalla vera natura dell’attore stesso. Quanto è alto, perciò, il rischio di cominciare a fingere anche nella vita reale facendo il Suo mestiere?
«Personalmente, penso di essere una persona estremamente vera. Chiaramente, a volte un personaggio può prenderti in modo tale da riproporlo anche nella vita reale. Ti accorgi, ad esempio che in certe situazioni rispondi come lui. Però, non so se è l’attore che si porta dietro il suo personaggio o se è il personaggio che incarna un po’ l’attore.
Prendiamo il mio caso; io che ho interpretato spesso personaggi con la testa tra le nuvole, non so se sono diventata davvero un po’ distratta perché interpretavo personaggi del genere o se questi caratteri mi sono riusciti bene perché io sono proprio così di natura».
Parliamo un po’ di fatti storici della Sua carriera. Lei ha lavorato con Erminio Macario (ad esempio in “Macario 1 e 2” o “Macario Più”) e in film diretti da Bruno Corbucci (“Squadra Antimafia“, “Squadra Antigangster“ o “Cane e gatto”). In cosa differivano questi due personaggi chiave della sua vita?
«Erano due persone completamente diverse. Macario era un attore; per me è stato un grande maestro che mi ha insegnato i tempi comici, a stare sul palcoscenico e, soprattutto, a ricevere l’applauso d’ingresso, una cosa importante che molti non sanno ottenere. Poi, a livello umano, è stato un secondo papà e mi ha dato la possibilità di credere in me stessa.
Anche Corbucci credeva molto in me, tanto da portarmi in America con lui. Ci definivamo vicendevolmente dei “portafortuna” perché ogni cosa che facevamo assieme aveva grande successo. Per me, sicuramente lo è stato; infatti senza di lui forse non sarei qui a rispondere all’intervista»
Nel 1983 è approdata al “Drive In“ di Antonio Ricci, vincendo ben tre Telegatti. Ci può raccontare come era l’atmosfera durante la lavorazione delle puntante e i rapporti tra colleghi?
«L’atmosfera era favolosa e il rapporto tra di noi, bellissimo; ci si voleva molto bene. Sembrava quasi una situazione da caserma o da collegio dove si stava insieme tutto il giorno e ci si lasciava solo per dormire pochissime ore. E poi c’erano scherzi continui, molti dei quali poi venivano ripresi nella trasmissione. E’ stato un momento irripetibile e penso che un affiatamento così non lo troverò mai più».
Lei ha parlato dell’ambiente scherzoso del “Drive In”. Ci può raccontare un aneddoto che ha vissuto sulla sua pelle?
«Ce ne sono tantissimi, qualcuno anche cattivello.
Mi ricordo che durante una puntata di “Beruscao” dovevo fingere di frustare Beruschi. Mi avevano dato una vera frusta però legata con dei fili di lana affinché non facessi male ad Enrico. Ricci poi si è era raccomandato di frustare forte ma velocemente cosicché non si vedesse il trucco. A mia insaputa, tolsero però tutti i fili di lana. Durante la scena, io feci esattamente quello che mi fu detto: frustare forte e veloce. Vedevo che Beruschi faceva dei salti incredibili e tentava di scappare ma pensavo fosse una esigenza di copione. E io per rendere più credibile la scena, lo tenevo stretto e lo frustavo sempre più forte. Finita la scena il povero Enrico era pieno di lividi alle gambe!».
Antonio Ricci, grande autore ancora oggi, è stato un altro personaggio chiave per Lei. Cosa Le ha insegnato?
«Mi ha insegnato l’autoironia, il gusto non cattivo di prendersi in giro e che si può far ridere anche non ricorrendo alle parolacce o alle volgarità».
Una delle parti che il pubblico attendeva maggiormente in “Drive In” era proprio lo sketch con Enrico Beruschi, un collega con cui eravate così affiati da indurre molte persone a credere che foste davvero marito e moglie; in realtà sono in tanti a pensarlo ancora oggi. C’è mai stato qualcosa in più dell’amicizia tra voi? E com’è il rapporto con Beruschi oggi, a tanti anni di distanza?
«No, non c’è mai stato niente tra di noi; il nostro è sempre stato un legame di vera amicizia.
Il rapporto con Enrico è sempre uguale e non è cambiato proprio per niente; infatti, anche se sono alcuni anni che non lavoriamo più insieme, ci sentiamo quasi quotidianamente perché c’è questo bisogno di raccontarsi tutto ciò che ci accade. Nessuno dei due prenderebbe mai una decisione senza aver chiesto il parere dell’altro. Enrico non è un collega è proprio un amico».
Lei ha avuto quale datore di lavoro Silvio Berlusconi, che Lei, riferendosi ai periodi del “Drive In”, ha definito un “pifferaio magico”. Può spiegarci meglio questo concetto e può descrivere il “Berlusconi imprenditore“?
«Lo definivo e lo definisco ancora un “pifferaio magico” perché aveva questo grande fascino attraverso cui riusciva a trasmettere positività, facendo sentire le persone importanti e facendo sentire importante ciò che si stava facendo. “Pifferaio magico”, quindi, perché qualsiasi persona l’avrebbe seguito in capo al mondo!
Non sbagliava mai una trasmissione perché sapeva come far piacere qualcosa al pubblico. Sua è, infatti, l’invenzione del tormentone che io ripetevo spesso: “Enricoooo!”.
Tengo a precisare che l’espressione “pifferaio magico” è un modo di dire molto affettuoso e che io parlo dell’imprenditore e non del politico che è diventato, perché non l’ho mai più visto e non ne so assolutamente più nulla».
Anche per il campo dello spettacolo, potrebbe valere il famoso motto di Lavoiser “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma“. Applicando questo concetto al Suo settore, come si è trasformato il mondo dello spettacolo dall’inizio della sua carriera ad oggi e cosa rimpiange della Tv o del cinema del passato?
«Io non rimpiango niente perché vivo sempre molto nel presente e trovo che, anche se il modo di recitare è cambiato, è bruttissimo per un attore continuare a pensare a come si recitava una volta. Se si vuole rimanere sulla cresta dell’onda, bisogna vedere cosa piace ai giovani adesso e cercare di essere sempre moderni. Io mi trovo bene anche in quest’epoca!»
Lei ha spesso interpretato personaggi dalla goffa e buffa femminilità. Che rapporto ha col suo essere donna e come mai ha deciso di interpretare ruoli del genere?
«Non potevo accettarne altri, non potevo fare la bella!
Quindi l’unica cosa era interpretare questo genere di personaggi che a me divertivano molto, forse perché in loro era contenuta una parte di me.
Il rapporto col mio essere donna? Chiamiamo uno psicanalista! Non ho mai dato molta importanza - adesso a parte gli scherzi - al fatto estetico perché per me è importante quello che una donna ha dentro. Io mi vesto meglio o peggio a seconda dello stato d’animo o secondo il mio bisogno ma mai per compiacere gli altri o per cercare di essere più femminile. Io penso che un uomo, se mi ama, deve amarmi per come sono, anche con la tuta o con gli occhiali perché magari non ho voglia di mettermi le lenti a contatto. Non posso fingere di essere diversa da quella che sono».
Nel campo dello spettacolo, come una pellicola cerca di immortale un determinato momento, anche i personaggi che lo popolano vogliono spesso fermare il tempo, ricorrendo alla chirurgia plastica. Lei, però, si è sempre dichiarata contraria. Ci può spiegare perché e che rapporto ha con lo scorrere del tempo?
«Ci tengo a precisare che, come mi ha insegnato il mio papà, bisogna avere il massimo rispetto per la volontà delle persone e quindi ben lungi da me il voler criticare. Penso che ognuno debba fare tutto quello che sente per sentirsi meglio nella vita. Quindi se una persona decide di ricorrere al chirugo plastico per sentirsi meglio, fa benissimo.
Come dicevo, per me non è importante il fatto estetico e le rughe, penso, facciano parte della nostra vita e che ognuna di esse abbia una storia. Se sorridi di più avrai le rughe che vanno all’insù e se, invece, sei stato molto infelice avrai le rughe all’ingiù. Sono quindi lo specchio del tuo passato e il viso non è una lavagna che si possa facilmente cancellare. Secondo me è bello vedere sul volto di una persone le espressioni che la vita, nel suo incedere, le ha donato».
L’inizio di una qualsiasi cosa ha come unica certezza la sua fine. Lei quanto tempo pensa che lavorerà e quanta voglia ha ancora di divertire e di divertirsi?
«Io non penso di potermi ritirare mai. Il mio sogno sarebbe quello di lavorare fino all’ultimo giorno della mia vita, di recitare per sempre e di morire sul palcoscenico».
L’essere single per molti è l’epilogo di un fallimento. Per Lei, invece, sembra essere una scelta di vita. Ci può spiegare quali sono i lati belli che la singletudine può offrire?
«Beh, non sempre è una mia scelta. A volte è la scelta di altri! Diciamo però che ho saputo anche apprezzare la solitudine che ti permette di fare ciò che senti e ciò che vuoi. Questo il lato positivo ce l’ha e quando non si è più ragazzine, ancora di più».
Lei, nonostante la sua fama e il suo successo, è sempre riuscita a mantenere al riparo dai riflettori la sua vita privata. Quanto è complicato fare questo quando si è famosi? E qual è il segreto?
«È facilissimo. A me fanno ridere quando i miei colleghi vengono immortalati magari su alcune riviste e si sentono colti in flagrante! Basterebbe semplicemente non andare nei luoghi dove si sanno esserci tutti i fotografi. Se si va in un posto in cui si trovano dei paparazzi con una persona che magari non è il proprio marito o la propria moglie, è chiaro che si viene beccati! A volte, secondo me, si va con consapevolezza in un certo luogo, o perchè fa piacere apparire o per avere un po’ di pubblicità. Personalmente, a me imbarazza molto parlare della mia vita privata e per quanto sia espansiva o aperta quando parlo del mio lavoro, sono estremamente timida quando si va sul privato. Poi credo che alla gente interessi di più vedermi recitare che non sapere della mia vita ordinaria».
Nonostante la New Age, vi sono categoria di essere umani che sono sottoposti ancora a forti discriminazioni. Qual è la forma di violenza che proprio non riesce a tollerare e nei confronti di chi?
«Non riesco a tollerare il razzismo. Questa è una delle cose che mi fa più male: usare i luoghi comuni, immagini stereotipate per rafforzare l’opinione negativa su di una razza. Secondo me, c’è il buono e il cattivo da ogni parte e non si può fare di tutta un’erba un fascio. Anche gli italiani sono andati nel passato a lavorare all’estero. Io penso che quando una persona abbandona la propria terra, lasciando le proprie abitudini magari a causa di scelta disperata e obbligata, e si trovi in un ambiente completamente diverso e anche ostile…beh…capitasse a me mi farebbe molto male al cuore».
Lei ha dichiarato di avere avuto dalla cartomanzia (la divinazione tramite i tarocchi) e dalla radioestesia (la ricerca di risposte tramite il pendolino) predizioni esatte relativamente alla sua carriera o la sua vita. Quanto incide il destino secondo Lei sulla vita di tutti noi e quanto la casualità?
«Io penso che ci siano due strade: in una i passi obbligati sanciti dal nostro destino e disegnate nella nostra aura e a queste non ci si può sottrarre; bisogna proprio passare di lì! Poi invece c’è la quotidianità che potremmo vedere come un bivio a cui spesso ci si trova di davanti e di fronte al quale siamo noi che dobbiamo decidere se andare a sinistra o a destra, magari vedendo cambiare completamente la nostra vita».
In un’epoca come quella dei Reality, negli ambiziosi potrebbe nascere un sensazione di facilità nel raggiungimento del successo. Cosa si sentirebbe di consigliare ad una persona che volesse fare il suo stesso mestiere?
«Questo è vero: sembra tutto molto più facile. C’è gente che si alza al mattino e dice: “beh, oggi ho pensato di fare l’attore”. Questo mestiere, come qualsiasi altra professione, non è qualcosa che si improvvisa , al pari di colui che, sentendosi un giorno chirurgo, volesse operare senza studi e titoli.
Per fare il mio mestiere o si fa una scuola e si studia per anni oppure, come facevano una volta, si passa per una lunga gavetta visto che nel passato c’era proprio il concetto di crescere poco per volta. Adesso diventa tutto molto facile. Ma cosa comporta questo? È vero che partecipando ad una trasmissione ci si sente qualcuno, però è anche vero che, se non si hanno le basi, duri tre mesi o un anno..sei una meteora. E poi è drammatico per una persona che ha provato la notorietà fortuitamente senza avere vere e proprie capacità, vederla scomparire. Questo può veramente distruggere psicologicamente. Dovrebbero insegnare che, è vero che si può aver successo facile ma anche che si devono acquisire gli strumenti giusti per poterlo amministrare».
Lei ha cominciato la sua carriera quando i copioni venivano scritti con dure macchine da scrivere corredate da martelletti e da inchiostro a nastro. Ora i copioni sono tutti stampati col Pc, uno strumento che lei sembra usare con disinvoltura, almeno a quanto si vede dal suo profilo Facebook. In che misura, secondo Lei, i computers e soprattutto Internet hanno cambiato la nostra vita?
«Senz’altro in un modo meraviglioso. Però io non sono così brava col Pc!
Trovo Internet in modo particolare uno strumento eccezionale perché annulla le distanze.
Amo molto Facebook perché mi ha permesso di ritrovare persone che da anni non sentivo più e di cui non sapevo più nulla. Poi si possono anche stringere nuove amicizie ma sempre cercando di capire chi si trovi dietro al computer dato che è facile imbattersi in personaggi che vogliono soltanto approfittarsi della buona fede degli altri. Per il resto, trovo l’uso di Internet e del Pc molto positivo, soprattutto nei casi di quelle persone che essendo sole, trovano conforto dalla compagnia di amici virtuali».
Matteo Miramari
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